lunedì 26 giugno 2006

Note a margine

"Ho paura! Elena 16-5-91 ore 9.09.50"


Non è l'inizio di un racconto dell'orrore, ma una annotazione scritta a matita in un libro che mi è capitato in mano in questi giorni. Il libro è un glorioso e sofferente esemplare dei "Promessi Sposi", commentati da Sapegno e l'annotazione è a pagina 738, poco sotto la dicitura "Capitolo XXXVII". Ho ripreso il libro in mano per motivi di studio e l'ho riordinato in libreria per un senso di malinconia che mi ha sopraffatto. Le pagine seppiate di questo libro ormai sdrucito mi hanno aperto una finestra sul passato, su quello che ero 15 anni fa.


Tanti segni sparsi e consegnati alla storia lungo quelle pagine: una serie infinita di "ciao" scritti in calligrafie impossibili e adolescienziali, qualche disegno, alcuni tris puntualmente chiusi in pareggio, un accenno di battaglia navale, poi di nuovo cuori e numeri. Qua e là un nome. Di ragazza.


Segni di grafite di 15 anni fa, di quando frequentavo il liceo. Allora, quando scrissi questi frammenti di cronaca scolastica, non lo sapevo che oggi avrei ripreso in mano questo libro. Non lo sapevo, altrimenti ci avrei scritto molto di più. Perché questi graffiti a margine evocano, ma non raccontano. E io vorrei sapere. Com'ero, come erano gli altri. Chi era quella "Francesca" che mi fece disegnare, durante i capitoli della peste, cuori pubertariamente camuffati in composizioni geometriche. Vorrei sapere per cosa Elena aveva paura, quel 16 maggio, dieci secondi prima che scattassero le 9:10. Probabilmente un'interrogazione o un compito in classe. Era Manzoni? O biologia? Matematica? O latino?
Cerco di ricordarmi e metto a fuoco un edificio e una classe. Poi una giornata, quasi un template di giornata di maggio degli anni del liceo: aria frizzantina, cielo azzurro, profumo di freschezza, come la vita a 16 anni...
Vorrei sapere e interrogo il Manzoni. A pagina 667 ho scritto "La vigna di Renzo rispecchia il suo animo e l'umanità intera". Certo non era farina del mio sacco: l'avrà detto la prof. e io me l'ero segnato perché suonava come una di quelle cose che, dette sotto interrogazione, fanno un certo effetto. Ma soprattutto l'ho scritto con la sinistra, in una calligrafia incerta e spigolosa. Avevo un dito steccato? O stavo usando la destra per comunicare con il mio compagno di banco? Non ricordo e mi arrabbio.


Venti pagine più tardi "scendeva dalla soglia d'uno di quegli usci, e veniva verso il convoglio, una donna...". Ho colorato di grigio tutto il passo della madre di Cecilia. A fianco è scritto, con un tratto secco, "a memoria". Rileggo il paragrafo e mi accorgo che quelle righe mandate a mente si risvegliano e mi restituiscono un po' dell'angoscia di quel passaggio. Angoscia non per la povera Cecelia morta o per la madre morente, ma per noi studenti di seconda liceo, che ad uno ad uno sfilavamo in mesta processione alla cattedra a declamare questi passaggi. E se una parola ci scivolava via tra mille sinapsi in tilt per il panico, tornavamo al banco sconfitti e denigrati, come i milanesi di quelle pagine entravano al Lazzaretto. So che ho stramaledetto quella prof. Mi ricordo perfettamente il suo timbro di voce, il modo in cui pronunciava il mio cognome quando mi chiamava alla lavagna: Manzoni, ma anche latino. Che sicuramente era peggio. "Cesare, avendo saputo dagli ambasciatori che, per attaccare il nemico... poiché... siccome... affinché... decise... a marce forzate." Quelle frasi assurde lunghe come le descrizioni del Manzoni. E ancora più inutili. Cinque o sei righe alla lavagna, un periodo, quattordici subordinate, sessanta eccezioni... Il solito voto. Ed Elena annotava tutto nell'interrogometro, su cui veniva segnato il comportamento di ogni prof.: interrogazioni, compiti, domande dal posto, assenze... Ci aiutava a prevedere di che morte saremmo morti. Si entrava al mattino (io tra i primi, per copiare le versioni di latino dal buon Bortolani, la dimostrazione vivente che Garrone esiste) ed Elena diceva: Davide, oggi sei a rischio in Sallustio e biologia. Io sorridevo come chi sa di andare alla fucilazione. E mi chiedevo cosa kazzo ci sto a fare quì.


Continuo a sfogliare. Pagina 114, "Materiale di lavoro". Ho segnato una domanda. Probabilmente era da fare a casa. È il capitolo in cui Fra Cristoforo è ospite da Don Rodrigo e, a tavola, lo attacca frontalmente cercando di convincerlo a desistere dal suo proposito di impedire il famigerato matrimonio. La domanda dice: "C'è chi si è accorto che di quel banchetto si vengono a conoscere le chiacchiere, ma non le vivande. Sarà stata una dimenticanza dell'autore? O ci sarà un'altra ragione?"
Oggi quella interrogativa di 15 anni fa mi fa pensare che il Sapegno è un mago delle domande retoriche e che avrei voluto avere il coragggio di rispondere "Sì, si era dimenticato, prof. E mi dimostri il contrario...". Naturalmente non l'ho fatto (me ne ricorderei, altrimenti...). Ma ho consegnato al mio presente di oggi una chicca di quei miei anni di studio sofferto: a margine ho annotato come risposta: "Anche i logorroici, a volte, hanno bisogno di una pausa."


Quei pochi segni di matita lungo l'epopea dei due giovincelli che, dopo rapimenti, sommosse, arresti, carestie, guerre e pestilenze, il Manzoni neanche li fa accoppiare, sono quello che mi rimane di ciò che sono stato. Quella polvere di grafite che da 15 anni riposa tra le pagine di questo libro è l'unico legame fisico con il me stesso di allora. Che non c'è più, non tanto perché sono passati quindici anni, ma perché non sono capace di legare tra loro i fotogrammi e riempio i buchi con pennellate di colore prese a prestito da una sensazione, da un film, da un'idea che ho di me stesso.
Chissà se Elena è stata interrogata quel 16 maggio di quindici anni fa, quando il mondo girava attorno al nostro banco. E chissà se la prof. l'ha rispedita al posto con un bel 4.


E chissà se saprà raccontarlo a suo figlio.

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