mercoledì 28 giugno 2006

Satira o offesa?

Il 27 giugno 2006 nella rubrica Achilles' Spezial dello Spiegel, una delle riviste più importanti della Germania, è uscito un articolo che intendeva prendere in giro il modo in cui la nazionale italiana di calcio si è guadagnata l'accesso ai quarti di finale.

L'articolo, che voleva essere una satira, mi ha profondamente indignato, soprattutto perché vivo in Germania e apprezzo ogni giorno l'apertura e l'accoglienza di questo paese e di questo popolo. L'autore dell'articolo, che dopo una giornata di bombardamenti di mail è stato tolto e sostituito dalle scuse ufficiali della redazione, ha sfruttato una serie logora di pregiudizi sugli italiani che da una parte è offensiva e dall'altra è falsa. Le stupidate più grosse contenute in quell'articolo (gli italiani sono un popolo di parassiti) erano state tolte subito. Ma anche quelle rimaste fino a oggi a mezzogiorno gridano vendetta. Ecco qui i mei commenti.




  • Secondo l'autore dell' articolo l'uomo italiano si chiama Luigi. In realtà Luigi è al 42 posto dei nomi italiani più diffusi: (fonte)
  • La preoccupazione principale dell'uomo italiano è quella di fare il meno possibile e più avanti l'autore aggiunge che l'italiano si stanca alla svelta. Gli italiani lavorano più dei tedeschi (lo dicono i tassi di disoccupazione) e ogni italiano lavora in media 225 ore all'anno in più dei tedeschi (fonte). Chiunque abbia provato a raggiungere un qualche ufficio tedesco un qualsiasi venerdì pomeriggio può confermare, per non parlare del sabato.
  • In ciò (nel non fare niente) lo aiuta la "mama". L'autore dell'articolo ha scritto "La Mama" tra virgolette, quindi intendendo probabilmente usare la parola italiana e ha fatto 3 errori in due parole: due maiuscole che non c'entrano e una doppia che manca. Roba che neanche una casalinga della Volkshochschule...
  • Comunque sia lo aiuterebbe la mamma, che gli lava le calze di semiseta e gli cucina ogni giono la pasta con un bel po' di sugo sopra: ora io non so da dove venga la storia della calze di semiseta, ma quella della pasta dimostra una volta di più che quello l'Italia l'ha vista col binocolo: sono i tedeschi che cucinano la pasta e ci mettono la salsa sopra (cioè non la mescolano), con il risultato che il primo strato di pasta galleggia e quello/i inferiore/i diventano in breve un blocco di ghisa che per mangiarlo ci vuole il coltello. Inoltre gli italiani mangiano la pasta condita con un sugo, in quantità ragionevoli, mentre sono i tedeschi che mangiano il sugo con un po' di pasta (a proporzioni inverse).
  • Verso i trent'anni Luigi cambia cuoca e si sposa. Lo fa per riprodursi. Non c'è bisogno di andare a cercare statistiche: il tasso di natalità italiana è forse il più basso del pianeta.
  • La moglie, un tempo una bellissima italiana, si traforma nel giro di pochi mesi in una macchina da cucina dai fianchi larghi. Beh, qui lascio che siano le donne a rispondere. Lui comunque o non sa cosa sono le macchine da cucina e i fianchi larghi, o non ha mai visto una normale ragazza italiana sposata.
  • Il prode Achille conclude notando come il gesto di Totti di succhiarsi il dito sia tipico dell'uomo italiano. Ha sbagliato. Il gesto tipico dell'uomo italiano si fa effettivamente con un dito, ma non è il pollice, bensì il medio. E non si mette in bocca...

lunedì 26 giugno 2006

Note a margine

"Ho paura! Elena 16-5-91 ore 9.09.50"


Non è l'inizio di un racconto dell'orrore, ma una annotazione scritta a matita in un libro che mi è capitato in mano in questi giorni. Il libro è un glorioso e sofferente esemplare dei "Promessi Sposi", commentati da Sapegno e l'annotazione è a pagina 738, poco sotto la dicitura "Capitolo XXXVII". Ho ripreso il libro in mano per motivi di studio e l'ho riordinato in libreria per un senso di malinconia che mi ha sopraffatto. Le pagine seppiate di questo libro ormai sdrucito mi hanno aperto una finestra sul passato, su quello che ero 15 anni fa.


Tanti segni sparsi e consegnati alla storia lungo quelle pagine: una serie infinita di "ciao" scritti in calligrafie impossibili e adolescienziali, qualche disegno, alcuni tris puntualmente chiusi in pareggio, un accenno di battaglia navale, poi di nuovo cuori e numeri. Qua e là un nome. Di ragazza.


Segni di grafite di 15 anni fa, di quando frequentavo il liceo. Allora, quando scrissi questi frammenti di cronaca scolastica, non lo sapevo che oggi avrei ripreso in mano questo libro. Non lo sapevo, altrimenti ci avrei scritto molto di più. Perché questi graffiti a margine evocano, ma non raccontano. E io vorrei sapere. Com'ero, come erano gli altri. Chi era quella "Francesca" che mi fece disegnare, durante i capitoli della peste, cuori pubertariamente camuffati in composizioni geometriche. Vorrei sapere per cosa Elena aveva paura, quel 16 maggio, dieci secondi prima che scattassero le 9:10. Probabilmente un'interrogazione o un compito in classe. Era Manzoni? O biologia? Matematica? O latino?
Cerco di ricordarmi e metto a fuoco un edificio e una classe. Poi una giornata, quasi un template di giornata di maggio degli anni del liceo: aria frizzantina, cielo azzurro, profumo di freschezza, come la vita a 16 anni...
Vorrei sapere e interrogo il Manzoni. A pagina 667 ho scritto "La vigna di Renzo rispecchia il suo animo e l'umanità intera". Certo non era farina del mio sacco: l'avrà detto la prof. e io me l'ero segnato perché suonava come una di quelle cose che, dette sotto interrogazione, fanno un certo effetto. Ma soprattutto l'ho scritto con la sinistra, in una calligrafia incerta e spigolosa. Avevo un dito steccato? O stavo usando la destra per comunicare con il mio compagno di banco? Non ricordo e mi arrabbio.


Venti pagine più tardi "scendeva dalla soglia d'uno di quegli usci, e veniva verso il convoglio, una donna...". Ho colorato di grigio tutto il passo della madre di Cecilia. A fianco è scritto, con un tratto secco, "a memoria". Rileggo il paragrafo e mi accorgo che quelle righe mandate a mente si risvegliano e mi restituiscono un po' dell'angoscia di quel passaggio. Angoscia non per la povera Cecelia morta o per la madre morente, ma per noi studenti di seconda liceo, che ad uno ad uno sfilavamo in mesta processione alla cattedra a declamare questi passaggi. E se una parola ci scivolava via tra mille sinapsi in tilt per il panico, tornavamo al banco sconfitti e denigrati, come i milanesi di quelle pagine entravano al Lazzaretto. So che ho stramaledetto quella prof. Mi ricordo perfettamente il suo timbro di voce, il modo in cui pronunciava il mio cognome quando mi chiamava alla lavagna: Manzoni, ma anche latino. Che sicuramente era peggio. "Cesare, avendo saputo dagli ambasciatori che, per attaccare il nemico... poiché... siccome... affinché... decise... a marce forzate." Quelle frasi assurde lunghe come le descrizioni del Manzoni. E ancora più inutili. Cinque o sei righe alla lavagna, un periodo, quattordici subordinate, sessanta eccezioni... Il solito voto. Ed Elena annotava tutto nell'interrogometro, su cui veniva segnato il comportamento di ogni prof.: interrogazioni, compiti, domande dal posto, assenze... Ci aiutava a prevedere di che morte saremmo morti. Si entrava al mattino (io tra i primi, per copiare le versioni di latino dal buon Bortolani, la dimostrazione vivente che Garrone esiste) ed Elena diceva: Davide, oggi sei a rischio in Sallustio e biologia. Io sorridevo come chi sa di andare alla fucilazione. E mi chiedevo cosa kazzo ci sto a fare quì.


Continuo a sfogliare. Pagina 114, "Materiale di lavoro". Ho segnato una domanda. Probabilmente era da fare a casa. È il capitolo in cui Fra Cristoforo è ospite da Don Rodrigo e, a tavola, lo attacca frontalmente cercando di convincerlo a desistere dal suo proposito di impedire il famigerato matrimonio. La domanda dice: "C'è chi si è accorto che di quel banchetto si vengono a conoscere le chiacchiere, ma non le vivande. Sarà stata una dimenticanza dell'autore? O ci sarà un'altra ragione?"
Oggi quella interrogativa di 15 anni fa mi fa pensare che il Sapegno è un mago delle domande retoriche e che avrei voluto avere il coragggio di rispondere "Sì, si era dimenticato, prof. E mi dimostri il contrario...". Naturalmente non l'ho fatto (me ne ricorderei, altrimenti...). Ma ho consegnato al mio presente di oggi una chicca di quei miei anni di studio sofferto: a margine ho annotato come risposta: "Anche i logorroici, a volte, hanno bisogno di una pausa."


Quei pochi segni di matita lungo l'epopea dei due giovincelli che, dopo rapimenti, sommosse, arresti, carestie, guerre e pestilenze, il Manzoni neanche li fa accoppiare, sono quello che mi rimane di ciò che sono stato. Quella polvere di grafite che da 15 anni riposa tra le pagine di questo libro è l'unico legame fisico con il me stesso di allora. Che non c'è più, non tanto perché sono passati quindici anni, ma perché non sono capace di legare tra loro i fotogrammi e riempio i buchi con pennellate di colore prese a prestito da una sensazione, da un film, da un'idea che ho di me stesso.
Chissà se Elena è stata interrogata quel 16 maggio di quindici anni fa, quando il mondo girava attorno al nostro banco. E chissà se la prof. l'ha rispedita al posto con un bel 4.


E chissà se saprà raccontarlo a suo figlio.

lunedì 12 giugno 2006

30 secondi di...

Beh, 30 secondi di gloria davanti alla nazione non capitano tutti i giorni... Quindi questa entra di diritto nelle cose da raccontare!

La nostra storia ha un grande protagonista e qualche comparsa. Io sono una comparsa.
Abbiamo appuntamento a mezzogiorno in questo albergo. Lui mi ha contattato una decina di giorni prima chiedendomi se gli avessi potuto dare una mano a fare un servizio da Norimberga, città mondiale di Germania 2006. Ci conosciamo da alcuni mesi. Io l'ho importunato scrivendogli al giornale, dove lui lavora, per chiedergli di venire qui da noi a fare una conferenza. Non ci credevo neanch'io, ma lui ha accettato!

Quando a ottobre, il giorno dopo la conferenza, l'ho riaccompagnato in stazione, lui mi ha detto una frase che avrei voluto rivolgergli io, ma che per pudore non avrei mai pronunciato: "Restiamo in contatto, mi raccomando."

E così alla fine di maggio la sua mail mi ha strappato un sorriso:

...torno a Norimberga il 10 giugno, per registrare una cosa
per la TV per i Mondiali. Mi date una mano? ciao, b.

Ecco come questo sabato 10 giugno sono capitato in questo hotel appena fuori dalle mura cittadine. Lui arriva leggermente in ritardo, accompagnato da Marco e Massimo, addetti alle riprese e alla postproduzione. Si parte a piedi, il centro è solo di là dal fossato...
Marco mi dice: "Fai come se non esistessi", poi mi punta la telecamera contro il mio bel nasone, lui tira fuori un microfono e mi fa una domanda. Io dico stupidate e penso 'sti kazzi fai come se non esistessi'.
Entriamo in città, costeggiamo il fiume e subito ci fermiamo ad una distesa di tavoli all'aperto davanti ad uno dei tanti locali della zona. I tavioli per l'occasione non sono nudi, ma coperti da una poco discreta tovaglia con il disegno di un campo da calcio. Marco l'ha addocchiato da lontano, mentre io fantasticavo dietro un fondoschiena tangato. Ognuno ha la sua vocazione.

Il tempo stringe. Fra un'ora abbiamo appuntamento alla Schwurgerichtssaal, conosciuta anche come sala 600 del tribunale di Norimberga, dove fra il '45 e il '46 non si è solo concluso un capitolo doloroso di storia, ma se n'è anche aperto uno, più carico di speranza, per il diritto internazionale. Chiamo un taxi, a piedi non ce la facciamo più. Dopo dieci minuti la signora Schmidt (non è un nome di fantasia) ci apre i cancelli. Abbiamo un quarto d'ora per le riprese, prima che entri il prossimo gruppo per la visita guidata.
Come in una chiesa entriamo e subito ci mettiamo a parlare a bassa voce. L'assurdità che qui è racchiusa esige rispetto. Alle pareti alcune foto in bianco e nero di quegli ultimi attimi di nazionalsocialismo, fuori un sole impietoso che ci ricorda che quella è storia. Oggi qui, in questa città, i processi che fanno notizia sono quelli sulle partite, consumati da migliaia di tifosi ai tavoli di migliaia di bar e birrerie, davanti ad un boccale di birra. Solo i verdetti sono sempre quelli. Duri. E non conoscono appello.

All'uscita dal tribunale chiamo un altro taxi. Si va al Dokumentationszentrum nel Reichsparteitagsgelände
.
Lui ogni tanto si ferma, si consiglia con Marco su uno sfondo davanti a cui vale la pena dire qualcosa ai microfoni, poi torna con noi comparse e chiacchiera amichevolmente. A me e a V., che siamo i suoi accompagnatori del giorno, rivolge una teoria infinita di domande e noi rispondiamo, attenti a miscelare bene conoscenza e arguzia. Una risposta che gli rimane in mente finisce di sicuro nel suo prossimo articolo o servizio: vanitas vanitatis...

Massimo nel frattempo è disperato. Marco ha raccolto alcune ore di materiale filmato.. Lui lo deve zippare in 5 minuti. Come dice il Liga: "è uno sporco lavoro, ma qualcuno lo deve pur fare".

Prendiamo in ostaggio un povero tassista e lo obblighiamo a scarrozzarci attraverso tutta l'area del Dokumentationszentrum. Sessant'anni dopo ci sono ancora orde oceaniche di folli che invadono questa zona, ma oggi la follia è festaiola. Non si osanna ad un imbianchino con i baffetti, ma a 22 giovanotti in mutandoni e maglietta colorata.
Delle trentadue nazioni che sono convinte di diventare campioni del mondo di calcio i più convinti e i più numerosi mi sembrano i messicani. Lui si butta nella mischia. Parla con i tifosi, si propone come improbabile arbitro in giacca scura di un torneo di due contro due under 11, si fa fotografare in mezzo a capannelli di gente che durante l'anno stringe mani di seri professionisti in doppiopetto e oggi non si vergogna a gridare stupidate all'ombra di un sombrero formato famiglia. Io e V. osserviamo un poco in disparte e ci stupiamo come ogni volta che Marco accende la telecamera si accenda anche la pazzia gioiosa dei tifosi. Allegri, ma calmi fino ad un secondo prima, appena vedono un obiettivo cominciano a gridare, cantare, saltellare. Gli sparuti italiani presenti in più salutano e mandano un bacio a casa.

Si riparte. Dopo dieci minuti, saldato il conto di tre ore di taxi, siamo al Marktplatz, in periodo d'avvento terreno di caccia di italiani e americani che comprano inutili assurdità pagandole a peso d'oro tra le bancarelle del Weihnachtsmarkt. Qui c'è la fontana simbolo della città. Peccato che non si veda: l'hanno coperta con una scultura moderna fatta coi vecchi seggiolini dello stadio appena rimesso a nuovo. La gente di qui si è offesa, un po' per lo sfregio a danno di un'opera d'arte, ma soprattutto perché l'autore di cotanto azzardo è un artista di Monaco, cioè un bavarese. E Norimberga, questa è la prima cosa che si impara qui, è in Baviera per un dispetto di Napoleone, non per volere della gente. Sissignori, Norimberga è in Franconia, non in Baviera. Se non siete in un'interrogazione di geografia politico-amministrativa dite così e vi farete molti amici da queste parti.

Dopo pochi minuti arriva anche M.. Lui lo saluta, poi, senza che quasi se ne accorga, lo mette davanti alla telecamera di Marco e gli piazza il microfono davanti alla bocca. Fa alcune domande con una raccomandazione: risposte veloci e non banali. E io di nuovo penso: "'sti kazzi".

Mentre gli altri girano io e V. parliamo con Massimo. Ci spiega la vita che avrà quella cassetta e di quale morte morirà.

Si cambia sfondo, si cambia intervistato. Le domande rimangono uguali. Le risposte, credo, anche.
Ancora un cambio set. Ora sta a V.. Le fanno ripetere almeno tre volte la registrazione, perché delle macchine sullo sfondo hanno scelto il momento sbagliato per passare da lì.

Io mi siedo sui gradini della piazza di fianco alla Sebalduskirche, un po' provato da una giornata di taxi, sole cuocente e mille discorsi avviati, interrotti e ripresi, abortiti e rianimati. Ora sta a me. Mi dicono di rimanere seduto. Il sole cala proprio davanti a me. Lui si piazza dietro alla telecamera e mi dice di guardarlo, poi mi spara la fatidica domanda. Il led rosso è già acceso.


Beh, le mie parole non contribuiranno a formare una nuova Weltanschauung. Ma è stata una gran bella giornata, interessante, istruttiva, divertente. Ho imparato che per fare un minuto di trasmissione ci vuole un'ora di riprese. Per 30 secondi da comparsa basta invece avere i mondiali sotto casa e conoscere il protagonista. La battuta, quella, forse la taglieranno. Tanto non lo sai più neanche tu quello che hai detto.

E questa giornata la racconterò ai nipotini non perché per 30 secondi sono stato davanti alla telecamera, ma perché, per un giorno intero, ci sono stato dietro.

giovedì 8 giugno 2006

Herzogenaurach: una tipica storia tedesca

Adolf Dassler, fondatore della Adidas

Herzogenaurach è un paese di poche migliaia di anime a nordovest di Norimberga, nella Baviera settentrionale. Qui la tradizione calzaturiera ha radici profonde.


E qui un giorno del 1920 un ragazzo di vent'anni inizia a cucire scarpe. Il ragazzo si chiama Adolf Dassler e ha deciso di fare della sua passione, lo sport, il proprio lavoro e si mette a produrre scarpe sportive. Nel giro di poco tempo la sua idea imprenditoriale ha successo. Nel 1923 si unisce a lui il fratello, Rudolf, e nel 1936, alle Olimpiadi di Berlino, moltissimi atleti internazionali e quasi tutti quelli tedeschi gareggiano con calzature della ditta Dassler.


Arrivano gli anni duri della guerra, con la difficoltà di procurarsi buone materie prime e l'obbligo di convertire la produzione: nel 1944 dalle fabbriche di Adolf e Rudolf Dassler escono per lo più sacchetti per il pane e maschere antigas destinate all'esercito.


Con il dopoguerra arriva l'occupazione americana ed è proprio dall'esercito statunitense che giunge il primo grosso ordine che segna la rinascita dell'azienda.


A cavallo tra il 1948 e il 1949 i due fratelli litigano e decidono di sciogliere l'azienda per seguire strade separate: nascono l'Adidas e la Puma.


Le due aziende crescono fino a diventare quello che sono oggi, ma non lasciano Herzogenaurach, anzi, contribuiscono in modo determinante a farne la storia recente.


Herzogenaurach, come quasi ogni città e cittadina tedesca della zona, convive fino all'inizio degli anni '90 con la presenza dei soldati americani. A nord della città le truppe statunitensi hanno infatti occupato una grossa area usata dalla Wehrmacht come base aerea fino al '45 e ne hanno fatto una delle tante basi strategiche di appoggio.


Caduto il muro e finito il pericolo rosso, i soldati americani se ne sono andati (in zona sono rimasti solo a Bamberga e a Schweinfurt) e la grande area delle caserme - chiamata Herzo-Base è rimasta abbandonata. È stata l'Adidas, alcuni anni fa, a rilevarne la proprietà. Un giorno su quell'area sorgerà la sede mondiale dell'azienda.

martedì 6 giugno 2006

CI prepariamo al via!

Per preparare il mondiale si lavora senza sosta fino all'ultimo...

Signori si parte...


Due giorni ancora e poi sarà un mese mondiale.
I tifosi arrivano qui in Germania da ogni angolo del mondo e il popolo tedesco li accoglie con teutonica ospitalià al motto di Zu Gast bei Freunden che significa una cosa come Ospiti da amici.


Per ora lo spirito d'amicizia non scalda certo gli animi dei milioni di tifosi giunti qui per adorare il pallone: da due settimane di notte abbiamo rischio di gelate e in questa pazza estate mondiale Bodenfrost è certamente uno dei primi vocaboli da imparare...